Fin dai primi anni del secolo scorso l’Italia si garantiva una quantità enorme di fibra d’amianto (detto anche asbesto) estraendola dalla cava del Monte San Vittore, ancora negli anni Ottanta la più grande d’Europa. Ci troviamo nelle Valli di Lanzo, in Piemonte, a circa un chilometro da Balangero, a meno di un’ora di auto da Torino. Si pensi che, già nel 1927, e dunque ben novant’anni fa, l’Amiantifera di Balangero garantì 36 mila tonnellate di minerale. Qualche anno dopo, nel novembre del ’41, testimone d’eccezione di ciò che significhi estrarre da un solo sito quantità così spaventosamente ingenti di amianto fu un giovane chimico fresco di laurea, assunto in nero e con una falsa identità per via delle restrizioni imposte dalle leggi razziali del 1938: il suo nome era Primo Levi. Racconterà la sua esperienza in miniera in un racconto intitolato Nichel, poi incluso nel Sistema periodico (raccolta pubblicata da Einaudi nel 1975):
Anno dopo anno, − rivela lo scrittore che lavorò nella cava sino al giugno del 1942 − la valle si andava riempiendo di una lenta valanga di polvere e ghiaia. L’amianto che ancora vi era contenuto rendeva la massa leggermente scorrevole, pigramente pastosa, come un ghiacciaio: l’enorme lingua grigia, punteggiata di macigni nerastri, incedeva verso il basso laboriosamente, ponderosamente, di qualche decina di metri all’anno; esercitava sulle pareti della valle una pressione tale da provocare profonde crepe trasversali nella roccia; spostava di centimetri all’anno alcuni edifici costruiti troppo in basso. In uno di questi, detto “il sottomarino” appunto per la sua silenziosa deriva, abitavo io. C’era amianto dappertutto, come una neve cenerina: se si lasciava per qualche ora un libro su di un tavolo, e poi lo si toglieva, se ne trovava il profilo in negativo; i tetti erano coperti da uno spesso strato polverino, che nei giorni di pioggia s’imbeveva come una spugna, e ad un tratto franava violentemente a terra […][1].
Sulla stessa cava di Balangero, qualche tempo dopo, nel 1954, fu Italo Calvino a scrivere per «l’Unità» un racconto-reportage che uscì il 28 febbraio sull’edizione di Torino del giornale. In seguito a una lunga agitazione sindacale, originata dall’abolizione del premio di produzione, lo scrittore era stato inviato per raccontarne le vicende e il risultato fu La fabbrica nella montagna:
L’auto girò l’ultima curva tra i castagni e davanti ebbe la montagna dell’amianto con le cime e le pendici scavate a imbuto, e la fabbrica compenetrata in essa. Quelle erano le cave, quelle gradinate grige lucide ad anfiteatro tagliate nella montagna rossiccia di cespugli invernali; la montagna scendeva pezzo a pezzo nei frantoi della fabbrica, e veniva risputata in enormi cumuli di scorie, a formare un nuovo, ancora informe sistema montuoso grigio opaco. Tutto era fermo in quel grigio: da trentacinque giorni sui gradini della cava non salivano gli “sgaggiatori” armati di pala, picco e palanchino, né le perforatrici ronzavano contro la parete, né gli uomini delle mine gridavano accendendo la miccia: «Oooh la mina! Oooh brucia!», né quelli dei carrelli facevano il carico sul piano di frantumazione, e poi via per i ripidi binari scavati nella montagna, né quelli delle “bocchette” manovravano le leve per scaricare il materiale nei condotti della fabbrica, né nessun altro in nessun reparto lavorava a trasformare quella pietra in duttile fibra d’amianto: c’era lo sciopero, dal 18 gennaio, e quell’automobile che adesso usciva dal castagneto portava su i dirigenti della “Amiantifera” a discutere con la Commissione Interna[2].
Quello stesso grigio ritorna, nel racconto di Calvino, per descrivere il micidiale silenzio del bosco che copre la montagna: «Ma non ce n’è di lepri nel bosco, non crescono funghi nella terra rossa dai ricci di castagno, non cresce frumento nei duri campi dei paesi intorno, c’è solo il grigio polverone d’asbesto della cava che dove arriva brucia, foglie e polmoni, c’è la cava, l’unica così in Europa, loro vita e loro morte»[3]. Già, perché, lontana da azionisti e consigli di amministrazione, la fabbrica nella montagna aveva mietuto quindici morti d’infortunio in trentacinque anni. I numeri relativi ai morti d’amianto, oggi, sono anche peggiori: fino al dicembre del 2014 il numero di ex operai dell’Amiantifera deceduti era di 1201: in 214 casi, uno su cinque dunque, è stato possibile stabilire che il decesso sia stato causato dalla prolungata esposizione all’amianto.
Le parole di Levi e di Calvino sono, invero, impressionanti, anche per la loro concretezza, per la capacità di rendere così manifeste le condizioni in cui vivevano i lavoratori e lo stravolgimento dell’ambiente che circondava la cava. Nel descrivere la pericolosità dell’amianto, entrambi fanno leva su una consapevolezza del problema già attestata nei primi decenni del secolo, ma tutto sommato ignorata: si pensi che la prima sentenza di condanna per i danni alla salute dei lavoratori provocati dall’amianto risale addirittura al 1906 e venne pronunciata proprio dal Tribunale di Torino. Un settimanale locale, «Il Progresso del Canavese e delle Valli Stura», scrisse per un certo periodo dell’alto numero di morti precoci che si registrava tra i lavoratori di due fabbriche di lavorazione dell’amianto, situate a Nole, nel Canavese: la Bender & Martiny e la British Asbestos Company Limited[4]. Quest’ultima denunciò il responsabile della testata e il corrispondente per diffamazione e la questione finì in Tribunale. Dopo numerose consulenze di medici ed esperti, il giudice condannò l’impresa e la sentenza fu pubblicata sul giornale. L’azienda, allora, ricorse in Corte d’Appello e, l’anno successivo, perse di nuovo[5]. Negli stessi anni, situazioni analoghe si erano manifestate in tutto il mondo: anche negli Stati Uniti e in Canada, dove il minerale per molto altro tempo ancora fu estratto dalla miniera, lavorato (ovvero macinato) e immesso in manufatti di molteplici tipologie.
Da quanto si può ricostruire dagli atti di quel processo, allora ci si riferiva soltanto agli effetti sui lavoratori, in termini di mortalità e, grazie al contributo dei medici condotti dell’epoca, anche con una certa precisione, ma senza sapere che tutto dipendeva dall’amianto. Tuttavia, nello stesso periodo, ci fu un medico, Luigi Scarpa, che illustrò come una trentina dei suoi ricoverati al Policlinico Generale di Torino, tutti provenienti dalla stessa fabbrica, avessero contratto una forma particolare di tubercolosi, che non aveva la stessa evoluzione di quella di altri pazienti. Concluse, così, che l’origine di questa patologia dovesse essere ricondotta proprio alla fabbrica: «[…] ritengo giustificato il sospetto − sosteneva Scarpa − che l’industria dell’amianto costituisca, forse a motivo dello speciale pulviscolo a cui dà luogo, una delle occupazioni più perniciose quanto a predisposizione verso la tubercolosi polmonare, sì che si impongano speciali misure d’igiene e speciali misure di lavoro per gli operai che vi si adibiscono […]. La classe lavoratrice ha bisogno e possibilità di essere tutelata contro le insidie di quello stesso lavoro a cui chiede il sostentamento, che paga non di rado a prezzo della propria salute e della propria esistenza»[6].
Di fatto, gli effetti cancerogeni dell’asbesto furono resi pubblici solo tra gli anni Cinquanta e Sessanta − nel pieno di una vera e propria età dell’amianto −, anche se ciò non ha impedito alle aziende di utilizzarlo, anche successivamente, data la sua economicità e la sua efficienza nel prevenire i danni derivanti dal fuoco. Alla fine degli anni Sessanta si trovavano già in commercio oltre tremila prodotti contenenti amianto: nell’edilizia, sulle navi, nei serbatoi per l’acqua, nei freni per auto, nei guanti di protezione, sui vagoni ferroviari, nelle guarnizioni di ricambio per motori, nei tubi per acquedotti e fognature, nelle canne fumarie, nei tessuti resistenti al fuoco, persino nelle corde e sugli schermi. Tale utilizzo si è protratto all’incirca sino alla fine degli anni Ottanta.
Perché il problema dell’amianto emergesse in tutta la sua evidenza bisognerà attendere che, alla fine degli anni Settanta, venissero accolte le prime richieste di risarcimento per i danni subiti dai lavoratori e dai loro congiunti. Tra l’altro, nel 1977, la IARC (International Agency for Research on Cancer), che fa capo all’Organizzazione Mondiale della Sanità, dichiarerà cancerogene le fibre di amianto[7], ma passeranno numerosi anni prima che questo materiale venga bandito dalla maggioranza degli stati occidentali. Nel decennio successivo, comunque, una maggiore consapevolezza del pericolo che si stava correndo, unita alla paura che presto si sarebbe provveduto a regolamentare (e, dunque, a limitare) produzione e commercio del minerale, indusse i responsabili dell’Amiantifera di Balangero a raddoppiare in pochissimo tempo le quantità estratte (e, unitamente a queste, i prodotti di scarto che arrivavano a circa 6 milioni di metri cubi all’anno e che andavano ad alimentare due gigantesche discariche collocate, l’una, sul versante della Stura di Lanzo e, l’altra, poco più a nord, nel bacino del Torrente Fandaglia). Nel 1983 i proprietari, vale a dire Eternit e Manifatture Colombo, cedettero la cava ai fratelli Puccini di Roma che la resero ancor più avanzata tecnologicamente, prima di chiuderla, nel 1990, quando si calcolava che ci fossero 18 milioni di tonnellate di amianto ancora da estrarre.
Di fatto, da lì a poco, anticipata da provvedimenti simili intrapresi in Austria, Danimarca, Germania, Inghilterra e Finlandia e, tra il 1986 e il 1991, da una serie di circolari che la Regione Lombardia dedicò all’argomento (in Lombardia, oggi, Broni, dove fino al 1993 sorgeva la Fibronit, e le zone limitrofe dell’Oltrepò Pavese sono tra le aree geografiche con il più alto tasso di incidenza di mesotelioma maligno, un tumore causato dall’esposizione all’amianto: dal 1994 a oggi qui sono morte circa settecento persone), si arriverà alla legge n. 257 del 27 marzo 1992[8]. Essa vieta «l’estrazione, l’importazione, l’esportazione, la commercializzazione di prodotti di amianto o contenenti amianto» e, con l’articolo 11, indica addirittura le modalità di risanamento della miniera di Balangero. Tuttavia, pur essendo tuttora in vigore, non impedisce all’Italia di importare ingenti quantità di minerale. Ad esempio, nel 2012, l’Italia ha importato dall’India esattamente 1.040 tonnellate di amianto che, per quanto è dato sapere, sarebbero finite nei magazzini di una decina di imprese e di cui nessuno evidentemente controlla la destinazione. Perché?
Al di là dell’esito dei processi ancora in corso[9], sarebbe necessario conoscere la reale entità del problema sull’intero territorio nazionale e procedere con l’opera di bonifica. Al risanamento della ex miniera di Balangero, invece, provvede molto lentamente la RSA (Risanamento e Sviluppo Ambientale, sic!), una società a responsabilità limitata, ma a capitale interamente pubblico: la fine dei lavori è prevista per il 2020 ma, visto che la combinazione tra pubblico e privato è una forma che spesso ha tirato fuori il peggio da entrambi, ci si consenta di non essere troppo ottimisti. D’altronde, già si sa che da questa opera di risanamento resterà fuori la discarica situata sotto le strade e le case del paese. Ma quante altre strade e case sono state costruite su vere e proprie discariche di amianto? In aggiunta a ciò, la scelta dello Stato di accollarsi le spese per la bonifica del più importante sito estrattivo europeo, rinunciando a creare le premesse per un coinvolgimento dei suoi proprietari, è diametralmente opposta alla sua rigidità nel costringere (tardivamente) tutti gli utilizzatori inconsapevoli ad adeguare (frettolosamente) i manufatti contenenti le fibre dello stesso amianto estratto da quelle cave alle nuove norme. In pratica, sono solo i cittadini a pagare i costi di smaltimento dei prodotti contenenti amianto. Così, il signor Mario Rossi − che, supponiamo, decise di realizzare il box per la sua Fiat Uno affidandosi a un geometra e a un’impresa, ottemperando a tutte le prescrizioni imposte allora dalla legge − dovrà adesso dismettere la struttura, pagando di tasca propria una ditta autorizzata allo smaltimento di quel materiale di cui lo stato autorizzava la vendita e l’uso e che, come si è detto, continua a importare.
In Calabria, a tanti chilometri da Balangero, non sono presenti siti per lo smaltimento finale dei rifiuti contenenti amianto (ovvero discariche) o di inertizzazione per la trasformazione dei rifiuti in materia prima collocabile sul mercato[10]: ce ne sono solo alcune che effettuano attività di smaltimento intermedio (vale a dire, depositi preliminari). è per questo che i rifiuti contenenti amianto vengono smaltiti − secondo quanto si sostiene nel Piano Regionale Amianto redatto per la Calabria, nel dicembre del 2016, dal Dipartimento Ambiente e Territorio, con il supporto tecnico della Sogesid S.p.A., in attuazione a quanto disposto dal Piano Nazionale Amianto del 2013 − «fuori dai confini regionali in ambito nazionale e/o extranazionale (comunitario)», prevalentemente in Germania, visto che Austria e Svizzera hanno chiuso le frontiere. Si tratta, con ogni evidenza, di una filiera tutt’altro che corta. Sarebbe, inoltre, opportuno, semplificare il conferimento per lo smaltimento da parte dei cittadini di limitate quantità di materiali contenenti amianto a soggetti autorizzati per garantire una corretta e sicura gestione di tali scarti, limitando il diffuso fenomeno, in realtà non soltanto calabrese, degli abbandoni incontrollati[11].
A tutela della salute, da tempo immemore, si parla di registri dei tumori ma, specialmente in alcune regioni, mai con risultati apprezzabili: i registri attivi (in più di un caso non aggiornati) coprono poco più del 16 % della popolazione residente, anche se, al 2009, l’Associazione Italiana Registri Tumori dichiarava una copertura del 53 %; nessuna copertura, invece, in Valle d’Aosta, nelle Marche, in Abruzzo, in Molise e in Basilicata; neanche il 10 % della popolazione registrata nel Lazio, il 18 in Calabria e poco più del 28 in Piemonte. Le misure previdenziali, già prefigurate del resto con la legge del ’92, per quanto necessarie, sono molto dispendiose. Insomma, soltanto adesso si inizia ad aver contezza di quanto amianto è ancora presente sul territorio, non si ha nessuna nozione di quanto ne sia stato smaltito illegalmente e non si ha che un’idea approssimativa riguardo all’incidenza che questa pratica ha avuto e continua ad avere sulla salute dei cittadini e sull’ambiente. Quello che si sa è che oggi, dopo più di 25 anni dalla messa al bando, questo materiale continua ancora a produrre un danno enorme: almeno tremila vittime e costi sociali di oltre 500 milioni di euro ogni anno[12].
Il compito di Levi e di Calvino non era certamente quello di far sì che il superamento dell’età dell’amianto avvenisse senza traumi, anche se è chiara nei loro scritti l’espressione di una viva preoccupazione. Noi ora sappiamo che occorre disporre al più presto misure di prevenzione primaria e, per la bonifica, prevedere una filiera corta (quella attuale, lo si è visto, è troppo lunga) per lo smaltimento dei manufatti contenenti amianto, in modo da evitare future esposizioni. Per coloro che sono stati già esposti, stabilire programmi di sorveglianza sanitaria e di adeguata terapia, oltre alle misure previdenziali e assistenziali, in parte già erogate, con la riorganizzazione e il necessario incremento del Fondo per le Vittime dell’Amianto e con il prepensionamento dei lavoratori malati di patologie asbesto-correlate e per quelli che sono stati esposti per più di 10 anni. Non bisogna infatti dimenticare che, dato il lungo periodo di sviluppo delle malattie legate all’amianto, il picco si raggiungerà nei prossimi anni[13]. Saremo in grado di fronteggiare adeguatamente un problema così articolato e diffuso? O, come spesso accade, lo faremo quando si sarà trasformato in un’emergenza?
Tullio De Paola
Alessandro Gaudio
pubblicato su «Il Ponte», a. LXXIV, n. 2, marzo-aprile 2018, pp. 57-63
[1] P. Levi, Opere, I, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, p. 796.
[2] I. Calvino, La fabbrica nella montagna, «l’Unità», edizione di Torino, 31, 51, 28 febbraio 1954, p. 3; ora in Id., Romanzi e racconti, III, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1994, pp. 941-946; la citazione è a p. 941.
[3] Ivi, p. 942.
[4] Si fa riferimento ai seguenti fascicoli del periodico: n. 22, a. VI, 1/6/1906; n. 23, a. VI, 8/6/1906; n. 24, a. VI, 15/6/1906; n. 33, a. VI, 17/8/1906; n. 41, a. VI, 12/10/1906; n. 44 a. VI, 2/11/1906; n. 23, a. VII, 7/6/1907; n. 24, a. VII, 14/6/1907.
[5] La domanda risarcitoria nei confronti dei giornalisti venne respinta in prima istanza dal Tribunale di Torino (sez. II, civile, 1906 ottobre 22, ruolo n.1197=1906, n. cron. 8688, n. rep. 9914, Archivio di Stato di Torino, sez. riunite) e, poi, dalla Corte di Appello di Torino, con la sentenza n. 334 (sez. I, civile, 1907 giugno 4, cron. n. 578, rep. n. 325, sent. n. 334, registro n. 116/1907, Archivio di Stato di Torino, sez. riunite).
[6] Si veda L. Scarpa, Industria dell’amianto e tubercolosi, in L. Lucatello (a cura di), Lavori dei Congressi di Medicina Interna (XVIII Congresso tenuto in Roma nell’ottobre 1908), Roma, 1909, pp. 358-359.
[7] Già nel 1973 si era tenuto a Lione un convegno internazionale nel corso del quale era emerso con chiarezza che tutti i tipi di amianto fossero da considerare certamente cancerogeni per l’uomo. In quello stesso anno, la IARC, nella sua prima monografia dedicata all’amianto, aveva decretato la sufficiente evidenza della sua cancerogenicità, classificandolo, nel ’77, tra gli agenti cancerogeni per l’uomo. L’ultima valutazione in ordine di tempo da parte della IARC è stata effettuata nel 2012: si conferma l’amianto come unico fattore di rischio certo per il mesotelioma in una serie di organi; conferma l’amianto come agente cancerogeno certo per il cancro del polmone, e per la prima volta definisce l’amianto come cancerogeno certo per il cancro della laringe e dell’ovaio.
[8] Inoltre, l’Italia ha emanato numerose norme tecniche di settore. Se ne segnalano le principali: D.Lgs. 277/1991, D.M. 6/9/1994, D.P.R. 8/8/1994, D.M. 26/10/1995, D.M. 15/5/1996, D.M. 20/8/1999, L. 93/2001, D.M. 101/2003, D.M. 248/2004, D.Lgs. 81/2008. Dette norme consentono di tutelare la sicurezza dei lavoratori esposti ad amianto, forniscono istruzioni in merito alla corretta mappatura su tutto il territorio nazionale dei siti contaminati da amianto e indicano come procedere alla gestione in sicurezza delle attività di bonifica dei siti inquinati da tale sostanza cancerogena.
[9] L’ex procuratore della Repubblica di Torino, Raffaele Guariniello, è il simbolo della lotta contro l’amianto: è stato ancora una volta il tribunale di Torino, il 13 febbraio 2012, a emettere una sentenza storica contro i vertici di Eternit AG. Al di là delle importanti condanne comminate al termine del processo istituito dal celebre pubblico ministero, la sentenza ha obbligato i responsabili dell’azienda al risarcimento di circa tremila parti civili e al pagamento delle spese giudiziarie. Dopo diverse traversie, ha un peso notevole un recente parere della Corte Costituzionale, secondo il quale i vertici di Eternit possono essere processati per ogni nuovo morto da mesotelioma provocato dagli stabilimenti di Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli. Il caso Eternit, costituendo un precedente importante, potrebbe dare il via a decine di processi simili in tutta Europa.
[10] è possibile rinvenire il dato relativo all’insufficienza e alla posizione delle discariche (oltre alla Calabria, fino al 2013, anche Campania, Lazio, Lombardia e Sicilia non erano dotate di impianti di smaltimento in esercizio: in tutto il territorio nazionale se ne contavano 19, ciascuna abilitata ad accettare soltanto particolari tipologie di materiali) e alle volumetrie di rifiuti accettate all’interno della Mappatura delle discariche che accettano in Italia i Rifiuti Contenenti Amianto e loro capacità di smaltimento passate, presenti e future, redatta dal Settore Ricerca dell’Inail e dal Dipartimento Installazioni di Produzione e Insediamenti Antropici (DIPIA), in qualità di referenti tecnico-scientifici del Ministero dell’Ambiente, e aggiornata al giugno del 2013. Il documento attesta l’individuazione di 6 nuove discariche in attesa di autorizzazione e precisa che 5 discariche hanno richiesto l’ampliamento della loro struttura. Dall’analisi dei dati e dalle informazioni acquisite dalle autorità regionali preposte al rilascio delle autorizzazioni di legge, è emerso che le volumetrie complessive teoriche in attesa di autorizzazione, questa è l’espressione utilizzata nel documento, ammontano a circa 3.800.000 metri cubi.
[11] La Provincia di Rovigo, ad esempio, ha attivato lo sportello denominato Punto Amianto, con lo scopo di organizzare e coordinare il servizio pubblico di micro raccolta (al massimo 75 mq) dell’amianto; essa avviene a prezzi controllati e con la semplificazione degli adempimenti amministrativi a carico dell’utente.
[12] L’Italia ha previsto un Registro Italiano dei Mesoteliomi (D.Lgs. 277/1991 e D.P.C.M. 308/2002) e la mappatura completa della presenza di amianto sul territorio nazionale (Legge 93/2001 e D.M. 101/2003) che, al 2013, ha registrato circa 34 mila siti contaminati da amianto. Questo dato, in realtà largamente incompleto, è integrato da quanto segnalato nella nota successiva.
[13] Il terzo dossier curato dall’Istituto Superiore di Sanità sugli effetti sulla salute delle popolazioni esposte a inquinamento industriale ha individuato quarantaquattro aree contaminate, per molteplici cause, oltre ogni limite di legge. In queste zone, definite S.I.N., siti di interesse nazionale per le bonifiche, è stato accertato che il rischio di contrarre tumori, malattie respiratorie, circolatorie, neurologiche e renali è notevolmente più alto rispetto al resto d’Italia. Tra tali siti di interesse nazionale figurano, naturalmente, Balangero, Corio, Casale Monferrato, Broni, e poi Bari, la Val Basento, Taranto e Statte e i comuni calabresi di Cassano allo Ionio, Cerchiara e Crotone, fino a Gela, Porto Torres e nel Sulcis. Sulla questione si veda anche l’inchiesta condotta da Gianni Lannes, intitolata Italia inquinata: bonifiche fantasma e cancro alle stelle e reperibile al seguente URL:
http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2015/10/italia-inquinata-bonifiche-fantasma-e.html.