di Eleonora Forenza – erudeputata
Nelle ultime due settimane, assieme all’Associazione per i diritti dei detenuti Yairaiha Onlus, abbiamo effettuato visite ispettive nelle carceri di Catanzaro (31 ottobre), Milano Opera e Voghera (15 e 16 novembre), per proseguire il monitoraggio delle condizioni detentive nelle sezioni di Alta Sicurezza, avviato ormai da alcuni anni.
Il quadro che ne esce è tragico. La condizione cui sono relegate le persone detenute nelle sezioni di Alta Sicurezza è lontanissima dal dettato Costituzionale dell’art. 27 e dalle convenzioni internazionali. Se il compito dell’istituzione carceraria è quello di rieducare chi ha commesso un reato, di restituirlo ad una vita futura consapevole degli errori commessi, di ricucire lo strappo con la società, non ho alcun timore ad affermare che in Italia questa istituzione ha fallito.
Migliaia di persone in attesa forzata senza prospettiva alcuna, in uno stato di totale alienazione. Nessuna speranza per il futuro, in particolar modo per chi non ha un fine pena: gli ergastolani. Quella stessa speranza che alcuni anni fa portò la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo a condannare l’Inghilterra per aver violato e negato il “diritto alla speranza” (sentenza Vinter). Ora si aspetta il pronunciamento della Corte su due ricorsi italiani: Viola e Ruggieri. Mi chiedono se sappiamo già qualcosa a Strasburgo, cercano un appiglio per continuare a sperare in attesa della morte.
A chi è detenuto in questi circuiti è consentito solo il passeggio o, in alternativa, la saletta per due ore al giorno. Il resto del tempo è alienazione, inazione per ben 22 ore al giorno. Nessuna attività trattamentale, nessuna attività formativa, i percorsi di studio sono sistematicamente ostacolati. Inoltre, la circolare del DAP (Dipartimento di amministrazione penitenziaria) sulla cosiddetta sorveglianza dinamica (ovvero con le celle aperte) viene sistematicamente disattesa, a causa soprattutto delle carenze di personale. E quindi i detenuti trascorrono tutto il tempo chiusi in cella. Il magistrato di sorveglianza, poi, si è trasformato in una sorta di giudice di quarto grado, contrariamente allo spirito giustizialista che ha infettato la società e messo tra parentesi la Costituzione e i diritti umani. Ed interviene spesso molto in ritardo. La c.d. area educativa, nonostante gli sforzi, non riesce ad assolvere al proprio compito. Uno dei leit motiv di tutte le ispezioni sin qui fatte è la mancata chiusura delle relazioni di sintesi aggiornate per i detenuti in Alta Sicurezza, senza la quale è persino inutile chiedere un permesso di necessità. Da qui ne deriva il prolungamento spropositato della permanenza nei circuiti di alta sicurezza e dei regimi di ostatività, ovvero dell’impossibilità di accedere a qualsiasi beneficio previsto dall’ordinamento.
Abbiamo anche riscontrato gravissime carenze sanitarie che, in alcuni casi, hanno determinato –e determinano- la morte delle persone costrette a scontare la condanna in strutture che dovrebbero porre alla base della propria mission il rispetto della Costituzione e delle Leggi che chi ha commesso un reato ha violato. E il diritto alla salute dovrebbe essere universalmente garantito a tutti e tutte senza distinzione alcuna. Abbiamo ascoltato e annotato le storie di persone visibilmente sofferenti fisicamente e psicologicamente, confuse, che non sanno se e quando potranno curarsi, che non sanno più a chi rivolgere istanze e reclami perché sembra cadere tutto nel vuoto.
Familiari incolpevoli che non hanno diritto ad informarsi neanche sulle condizioni di salute dei propri cari, condannati a subire anch’essi la barbarie che il carcere porta con sé anche nei momenti più difficili.
Potrei fornire i numeri di queste ispezioni, dei condannati, dei giudicabili, degli ergastolani, dei tossicodipendenti, dei malati psichici, restituendo dati statistici già presenti dettagliatamente sul sito del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma non renderebbero l’istantanea di un detenuto che abbiamo incontrato mentre era normalmente in passeggio nelle ore d’aria, ma con una mano gonfia come un pallone con innumerevoli punti di sutura, causata da un intervento sommario e dalla convalescenza in cameroni da 6 in assenza di adeguate condizioni igieniche; non renderebbero l’angoscia di un padre che non è preoccupato per l’imminente intervento oncologico che dovrà affrontare, ma pensa alla sua bambina, nata con una malformazione al cuore, che non può affrontare il viaggio dalla Calabria a Milano per poterlo visitare, e che prima, a Cagliari, era autorizzato ad andare a trovare ed ora non più; non restituirei l’ansia di un uomo che perde il respiro nel sonno e da due mesi aspetta che il nucleo di valutazione decida se autorizzare o meno la maschera per l’ossigeno; non restituirei il ricordo commosso che i compagni di cella ci hanno donato di un uomo lasciato morire tra dolori lancinanti a cui i sanitari del carcere, “a vista”, avevano diagnosticato coliche renali, mentre aveva tutti gli organi in metastasi, e la cura prescritta consisteva in una “partita a briscola che passava tutto” o una tachipirina.
Il carcere è lo specchio dei tempi che stiamo vivendo. Degrado e abbandono, indifferenza ed emarginazione. Alienazione. Dentro come fuori. Le responsabilità sono sistemiche, ma non si riesce ad individuare chi, tra i tanti attori coinvolti nella farraginosa macchina penale, se ne debba assumere onere e responsabilità. Uno scaricabarile. L’umanità reclusa è stata trasformata in numeri da cancellare, assieme all’art. 27 della Costituzione, svuotato oramai del suo onere a garanzia e tutela della dignità anche di coloro che sbagliano.
Quale beneficio, quale riparazione al torto subito, potrà offrire alla società una pena concepita all’insegna della tortura e dell’inazione dei condannati? La tortura non è solo al 41bis e non è solo per chi ha commesso un reato. La tortura è lasciare che il tempo per un detenuto trascorra nel vuoto; è lasciare che un uomo muoia senza potersi curare; è lasciare in angoscia un familiare; è lasciare che le “squadrette” abbiano le mani libere di aggredire persone inermi e indifese.
Mentre ci apprestiamo a chiudere questa sintesi delle ispezioni fatte, ci giunge conferma della denuncia di un pestaggio che l’Associazione ha ricevuto nei giorni scorsi e che è stata trasmessa al Garante Nazionale, Mauro Palma e al Garante della regione Toscana, Franco Corleone. Un fatto avvenuto a metà ottobre nel reparto di isolamento del carcere di San Gimignano (Siena) ai danni di un detenuto migrante con problemi psichici, che sarebbe stato massacrato di botte da circa 20 agenti durante il trasloco da una cella ad un’altra. È stata presentata formale denuncia, confermata anche dal medico penitenziario.
Il carcere in Italia è un generatore di mostri e la ricetta non è più mezzi – più uomini – più carceri, ma più umanità.