Le questioni dei beni comuni, dobbiamo concludere, sono contraddittorie e quindi sempre contestate. Dietro le contestazioni si celano interessi sociali e politici in conflitto. Del resto, come ha osservato Jacques Rancière, «la politica è la sfera di attività di un comune che può essere solo conflittuale». Alla fine, chi studia queste situazioni si trova di fronte a una
decisione semplice: da che parte stai? Cerchi di proteggere gli interessi comuni di chi? E con quali mezzi? Oggi, per esempio, i ricchi hanno l’abitudine di isolarsi in comunità recintate che definiscono un bene comune esclusivo. E, in linea di principio, non si comportano in modo diverso da quei cinquanta agricoltori che si spartiscono le risorse idriche collettive senza pensare a nessun altro. Come se non bastasse, hanno il coraggio di spacciare i loro spazi urbani esclusivi per tradizionali villaggi comuni: è il caso del Kierland Commons a Phoenix, in Arizona, descritto come un «villaggio urbano con spazi per la vendita al dettaglio, ristoranti, uffici» e così via. I gruppi radicali possono anche procurarsi spazi (a volte attraverso l’esercizio dei diritti di proprietà, come quando acquistano collettivamente un edificio da utilizzare per qualche scopo progressista) contribuendo così a promuovere una politica ispirata all’azione collettiva. Oppure possono costituire una comune o un soviet all’interno di quello spazio protetto. Le «case del popolo» descritti da
Margaret Kohn come luoghi centrali dell’attività politica nell’Italia nel primo Novecento, rientrano precisamente in questa categoria. Non tutte le forme di comune sono di libero accesso. Alcune (l’aria che respiriamo, per esempio) lo sono, altre invece (come le strade delle nostre città), per quanto teoricamente aperte, si rivelano in realtà regolamentate,
sorvegliate e addirittura, nel caso dei distretti commerciali o business improvement district, direttamente gestite da privati. La maggior parte degli esempi utilizzati nel primo libro della Ostrom rientrava in questo caso particolare. Inoltre, nei lavori iniziali la sua analisi si limitava alle cosiddette risorse «naturali» come terra, foreste, acqua, pesca ecc. (dico «cosiddette» perché ogni tipo di risorsa è in realtà l’esito di interventi tecnologici, economici e culturali, e quindi socialmente definita).
In seguito, insieme ad altri colleghi e collaboratori, Ostrom ha iniziato a prendere in considerazione forme diverse di beni comuni, come il patrimonio genetico, la conoscenza o i beni culturali, in quanto forme collettive esposte a un processo di progressiva mercificazione e recinzione.
I beni collettivi di carattere culturale, per esempio, sono oggi mercificati (e perlopiù censurati) da un’industria culturale che tende a «disneyficarli». Laddove la proprietà intellettuale e i diritti di brevetto sui patrimoni genetici o più in generale sulla conoscenza scientifica costituiscono uno dei temi più spinosi del nostro tempo. Quando gli editori fanno pagare l’accesso agli articoli su riviste tecniche o scientifiche, emerge un evidente problema di interdizione rispetto a un sapere collettivo che dovrebbe essere aperto a
tutti. Negli ultimi vent’anni si sono moltiplicati gli studi e le proposte concrete, come pure feroci guerre legali, per la creazione di un sapere collettivo e di libero accesso.
Commons culturali e intellettuali come quelli che ho appena descritto non sono di solito soggetti a una logica di scarsità o agli usi esclusivi che contraddistinguono la maggior parte delle risorse naturali. Tutti possiamo ascoltare una stessa trasmissione radiofonica o lo stesso programma televisivo nello stesso momento senza per questo usurarne la portata.
Il comune di cui si sta parlando non è soltanto la terra che condividiamo, ma anche il linguaggio che creiamo, le pratiche sociali che costituiamo, le forme della socialità che definiscono i nostri rapporti e così via». Tali forme di comune sono costruite nel tempo e, in linea di principio, aperte a tutti. La qualità umana di una città è il riflesso delle nostre pratiche nei suoi diversi spazi, anche quando questi sono soggetti a recinzioni, controlli ed
espropriazioni da parte di interessi privati o pubblici. Tra spazi o beni pubblici e beni collettivi, infatti, esiste una differenza fondamentale. Gli spazi e i beni pubblici urbani rimandano sempre all’autorità statale e alla pubblica amministrazione, e non costituiscono di per sé un bene comune.
Nella lunga storia dell’urbanizzazione, l’offerta di spazi e beni pubblici (inerenti per esempio la salute, l’igiene o l’istruzione) attraverso servizi pubblici o privati ha svolto un ruolo cruciale per lo sviluppo capitalista. Le amministrazioni hanno dovuto garantire tutta una serie di beni (sotto forma di edilizia residenziale pubblica a prezzi accessibili, assistenza sanitaria, istruzione, strade asfaltate, servizi igienico-sanitari e acqua) alla
classe operaia urbanizzata in misura proporzionale all’entità dei conflitti e delle lotte di classe di cui le diverse città sono state teatro. Se è vero che questi spazi e questi beni pubblici contribuiscono in maniera determinante alla qualità dei beni comuni, affinché siano tali e sia possibile appropriarsene è necessaria un’azione politica diretta da parte dei cittadini, della gente. L’istruzione pubblica diventa un bene comune quando le forze
sociali se ne appropriano, la difendono e la migliorano traendone mutuo vantaggio (come nel caso della Parent-Teacher Association, cui va tutto il nostro sostegno). Piazza Syntagma ad Atene, piazza Tahrir al Cairo e Plaça de Catalunya a Barcellona erano semplici spazi pubblici: sono diventate un bene collettivo urbano quando le persone le hanno occupate per esprimere le proprie visioni politiche e avanzare le proprie richieste.
tratto da David Harvey, Città ribelli