A 99 anni dalla rivoluzione d’Ottobre, crediamo che il miglior modo per ricordare i dieci giorni che sconvolsero il mondo sia la riproposizione di un pezzo del succitato libro di John Reed. Non ci appartengono le celebrazioni e i festeggiamenti delle ricorrenze, i compleanni e gli anniversari, specie se tali momenti vanno a celebrare delle sconfitte. Sconfitte di fase, certo, ma pur sempre sconfitte. Arretramenti possibili che nella guerra di lunga durata per l’instaurazione del socialismo portano a nuovi riposizionamenti tattici, riorganizzazione delle fila senza scostamenti proggettuali dall’obiettivo strategico del rovesciamento dello stato di cose attuali. Non sono nostri i culti delle personalità e dei capi, anche se tali riproposizioni in sedicesimi, oggi sono molto in voga anche nelle nostre realtà di movimento che fino a ieri le hanno criticate. Certo è che non si può parlare dell’assalto al cielo senza ricondurlo a Lenin, o sottovalutare l’influenza ed il carisma che Stalin, Mao, Tito, Castro ebbero nell’edificazione dei primi esperimenti socialisti. Allo stesso tempo però non possiamo consegnare tali ricorrenze al revisionismo borghese imperante più becero e nazionalista che vorrebbe spogliare la data del 7 novembre dal suo contenuto di classe e presentarla come data della conciliazione nazionale, tanto gradita ai moderni oligarchi che dalla caduta dello stato dei soviet hanno tratto i maggiori benefici e guadagni costruendo imperi ultra-miliardari e facendo arretrare le condizioni delle masse popolari a quelle di cento anni fa, o alle schiere nazionaliste e dichiaratamente fasciste che lavorarono a stretto contatto con le forze imperialiste straniere e le corrotte dirigenze russe per schiacciare e far implodere la prima esperienza di governo proletario.
Quello che segue è un brano di grande rilevanza ed attualità che descrivevil grande fermento sociale politico e culturale vissuto in Russia in quei mesi con una tale grandezza e forza quasi da condurre il lettore nelle vie di Mosca o Pietrogrado nelle ore della presa del palazzo d’inverno, nei capannelli spontanei che sorgevano in ogni piazza e strada che vedevano coinvolti soldati e studenti, operai e semplici passanti a discutere della guerra, dello zarismo, dei proclami rivoluzionari dei bolscevichi. Ma la grandezza del brano sta anche nel descrivere la presa che le parole d’ordine leniniane, pane, pace e tutto il potere ai soviet, ebbero sulle masse popolari (soldati, operai e contadini) tali da porre un ristretto gruppo di rivoluzionari alla guida del primo governo operaio della storia.
Era il tempo del primo conflitto mondiale inter-imperialistico che vide spegnersi la spinta propulsiva dei partiti operai socialdemocratici, riuniti nella seconda internazionale che, votando i crediti di guerra e facendo proprie le parole d’ordine social-scioviniste delle proprie borghesie e governi nazionali, condussero al massacro le masse popolari nazionali, le une contro le altre.
Furono gli anni dell’affermazione di un nuovo modo di fare e concepire laguerra, la guerra industriale, combattuta sul fronte militare dalle masse popolari contadine e proletarie e sul fronte interno, quello produttivo, da altrettante schiere operaie che portarono all’affermazione di un nuovo soggetto sociale che sarà alla base della nascita del partito comunista, il quartier generale della rivoluzione bolscevica.
La rilevanza del brano non sta nella possibilità e necessità di riproposizione di quanto accaduto quasi cent’anni fa in termini deterministici ed evoluzionisti. Siamo certi che non è prendendo possesso di un palazzo governativo o delle poste e ferrovie che si instaurerà il socialismo nel XXI secolo.
Le teorie sulla fine della storia, sull’universalità della classe borghese, che hanno avuto gioco forza all’indomani della caduta del muro, hanno avuto strada spianata non solo per la ferocia dello scontro di classe che oggi in maniera unilaterale la borghesia conduce sulla classe che vive di lavoro, di non lavoro e di precarietà, ma anche e soprattutto per l’arretramento soggettivo dell’analisi e della prassi materialista, nonché per l’opportunismo di teorizzazioni finto-marxiste sulla fine della centralità dello scontro tra capitale e lavoro salariato, sull’imperi ed il nuovo ordine mondiale, sulla moltitudine, quale nuovo soggetto che soppianta la novecentesca classe proletaria, sul conflitto simbolico ed estetizzante al posto della lotta tra le classi. Tutte teorizzazioni opportuniste che hanno avuto facile presa su un’ampia fetta di settori di movimento e di classe, allo sbando dopo il processo di normalizzazione e ristrutturazione capitalista dello Stato e l’implosione dell’esperienza del socialismo reale. L’importanza del brano sta nell’attualità della dialettica materialista che vede oggi come ieri la centralità dello scontro tra le classi come momento di rottura che condurrà ad uno stadio più elevato della storia, quello senza lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, quello stadio storico dove sarà effettivamente messo a valore il mondo dell’uomo rispetto alla centralità del mondo delle cose.
Recuperare la forza rivoluzionaria dell’ottobre e del primo esperimento di dittatura proletaria, fare nostro il pensiero strategico leniniano e la dialettica materialista dell’incompatibilità degli interessi di classe diviene condizione ineluttabile per resistere alla ferocia dello scontro di classe in atto e per rovesciare i rapporti di forza a proprio vantaggio.
(…) All’ingresso della stazione, stavano due soldati con la baionetta in canna; un centinaio di persone, commercianti, funzionari e studenti inveivano contro di loro e li apostrofavano con violenza. Si vedeva
che si sentivano a disagio ed umiliati come ragazzi rimproverati ingiustamente. Un giovanotto, alto, dal viso arrogante, che vestiva l’uniforme di studente, guidava l’attacco.
– Voi comprendete, suppongo – diceva con tono insolente – che prendendo le armi contro i vostri fratelli, diventate gli strumenti di una banda di assassini e di traditori.
– Non è così, fratello – rispondeva il soldato seriamente. – Voi non capite. Vi sono due classi, il proletariato e la borghesia. Noi…
– Oh! la conosco questa storia! – interruppe lo studente. – Voialtri, contadini ignoranti, basta che sentiate ragliare qualche frase fatta e subito, senza aver capito niente, vi mettete a ripeterla come pappagalli.
La folla rideva.
– Oh! so bene – riprese il soldato, mentre la fronte gli si imperlava di sudore – voi siete un uomo istruito, lo si vede; io, non sono che un ignorante. Ma mi sembra…
– Voi credete certamente – interruppe l’altro sprezzante – che Lenin è un vero amico del proletariato?
– Sì, lo credo – rispose il soldato.
– Ebbene, amico mio, lo sapete che Lenin ha attraversato la Germania in un vagone piombato? Sapete che Lenin ha preso dei quattrini dai tedeschi
– Oh! so ben poco di tutto questo – replicò il soldato testardo, – ma io trovo che quello che egli ha detto è proprio quello che ho bisogno di sentire io e tutta la gente semplice come me. Vedete, vi sono due classi, la borghesia e il proletariato…
– Siete pazzo, amico mio! Io ho passato due anni a Schlusselburg per la mia azione rivoluzionaria, mentre voi, a quell’epoca sparavate sui rivoluzionari e cantavate «Dio protegga lo zar». Mi chiamo
Vasilij Georgevič Panin. Non avete sentito parlare di me?
– Mi dispiace, mai… – disse il soldato umilmente. – Ma io non sono che un ignorante. Voi siete un grande eroe, certamente.
– Proprio così – replicò lo studente con convinzione, – ed io combatto i bolscevichi che stanno rovinando la nostra Russia, la nostra libera rivoluzione. Come spiegate voi questo?
Il soldato si grattò la testa.
– Non so come si spiega questo – disse, facendo delle smorfie per lo sforzo imposto al suo cervello.
– A me, tutto sembra molto chiaro; è vero che non sono che un ignorante. Mi sembra che vi sono due classi, il proletariato e la borghesia…
– Ed eccovi daccapo con la vostra stupida formula! – gridò lo studente.
– …due classi, – continuò il soldato, cocciuto. – E chi non è con l’una è con l’altra…
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