Per fare delle chiare considerazioni sulla censura e sul controllo dell’informazione locale, nazionale e internazionale in Turchia come in tutto il resto del mondo, bisogna comprendere il loro sviluppo nel frame capitalista, dove fino ad oggi l’Europa e gli USA hanno portato, imposto e lasciato la barbarie sotto la maschera della democrazia liberale. Una democrazia chiaramente fallita e fuori tempo. L’Europa che oggi subisce le brutalità di Da’es è la stessa Europa del falso universalismo che crede e istiga allo scontro di civiltà, l’Europa e la NATO che lasciano tranquillamente che la Turchia acquisti petrolio dal cosiddetto Stato Islamico. E proprio sulla controversa immagine della Turchia in materia di censura, repressione e controllo si concentrerà questo breve spunto di riflessione.
La Turchia, quella terra “cuscinetto” tra l’Europa e il caldo Vicino Oriente, sin dalla nascita dello Stato Turco, è stata attraversata da conflitti interni ed esterni ai suoi confini. Conflitti culturali, sociali, economici e politici che, negli ultimi anni, si sono intensificati, rappresentando motivo di resistenza e lotta per le popolazioni, le parti politiche e i media indipendenti, mentre, di contro, il governo li ha usati come pretesti per reprimere, oscurare, censurare.
Sono diversi, infatti, i casi di censura nei confronti dei media indipendenti: piattaforme social come Twitter e Facebook vengono abitualmente oscurate subito dopo ogni attacco terroristico, i giornali assediati e controllati da polizia e agenti governativi. La legislazione vigente permette al sistema giuridico e a quello amministrativo di oscurare in tempo reale interi portali di notizie online oppure singoli articoli, bloccare l’accesso ad un singolo account nei social. Sui media mainstream non abbiamo sentito parlare di Tahir Elci, fondatore e membro di diverse organizzazioni umanitarie, che il 20 ottobre scorso fu arrestato dalla polizia turca con l’imputazione di propaganda terroristica per aver affermato nel corso di una trasmissione sulla Cnn turca, che il Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan, non è un’organizzazione terroristica, ma un movimento politico armato che porta avanti importanti istanze politiche e gode di un ampio sostegno. Arrestato per aver espresso un’opinione. Elci ricevette immediatamente la solidarietà di organizzazioni umanitarie e di associazioni di giuristi internazionali. Una settimana dopo il rilascio, pur rimanendo in attesa di giudizio, venne freddato dalla polizia durante un presidio a Sur. Dopo l’assassinio, il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan disse: “Questo incidente mostra quanto sia nel giusto la Turchia nella sua lotta determinata contro il terrorismo”. Due giorni prima la polizia turca arrestò Can Dundar, direttore del quotidiano Cuhmuriyet e con lui il capo della redazione di Ankara, Erdem Gul, con l’accusa di alto tradimento per aver rivelato un passaggio di armi dall’intelligence turca ai ribelli dell’Is in Siria, sulla base di documentazione foto e video proveniente dall’esercito turco. Fu sempre Erdogan, all’indomani della pubblicazione dell’inchiesta nel giugno scorso, a chiedere alla magistratura l’arresto dei due giornalisti e la loro condanna all’ergastolo aggravato, cioè l’ergastolo più ulteriori 42 anni, per alto tradimento. Per ultimo – dopo Zaman – è toccato all’agenzia di stampa Cihan, formata da giornalisti turchi e internazionali animati dall’unico scopo di fare chiarezza su ciò che sta succedendo in territorio turco, siriano e iracheno. Può definirsi democratico un paese dove oltre 30 giornalisti e molti altri accademici sono in carcere per aver espresso le proprie opinioni, oppure dovremmo meglio definirlo come la culla dell’oscurantismo, del potere e della censura?
In Turchia la presenza della questione curda sui media è legata agli sviluppi storici del giornalismo turco e soprattutto alle leggi riguardanti l’uso della lingua curda e la discussione sui diritti curdi in ambiti pubblici e privati formalizzatisi con la Costituzione del 1982, rimessa in discussione a fine anni ’90, ma evidentemente ancora viva. Chi pubblica e scrive determinati articoli, diffonde certe fotografie, condivide video particolari viene accusato, grazie a specifici articoli del codice penale, di incitare le popolazioni alla rivolta contro il governo, di istigare alla violenza, di promuovere e propagandare un’organizzazione terroristica.
Nella Turchia di Erdogan non mancano umiliazioni pubbliche: è il caso esemplare di Ekin Van, donna, curda, combattente del PKK, brutalmente torturata e ammazzata dall’esercito turco. Il suo corpo è stato abbandonato per strada, nudo, come se fosse un rifiuto da gettare via, come se dovesse essere un monito perenne, pubblico, per chi osa sfidare Erdogan e lo strapotere militare della Turchia e della Nato. Intellettuali giovani e meno giovani marchiati senza alcun fondamento come sovversivi: un esempio è proprio quello di pochi giorni fa, quando la polizia turca si è recata a casa di Narin Capan e l’ha tratta in arresto con l’accusa di “Offesa allo Stato” per aver dato una cattiva immagine della Turchia a giornalisti stranieri. Inoltre si accusa la donna di aver conservato sul suo cellulare, che fu sequestrato in quell’occasione, una fotografia che la immortalava nella città di Kobane, nel Kurdistan siriano, e per questo di essere “membro delle Ypg”, ovvero delle unità di protezione popolare curde in Siria considerate dal governo turco, a loro volta, organizzazione terroristica. Inutile elencare i tanti licenziamenti, le violenze fisiche perpetrate su donne e bambini curdi nei villaggi saccheggiati del Kurdistan con la giustificazione di combattere il terrorismo.
Per ultimo in Turchia – proprio pochi giorni fa – il testo di Arzu Demir, La rivoluzione del Rojava. come e perché la resistenza curda in Medio Oriente sta cambiando lo stato di cose presente, edito in Italia da Red Star Press, veniva colpito da censura. Censura in questo caso è sinonimo di sequestro di tutte le copie e blocco della diffusione del libro in Turchia.
I media di tutto il mondo hanno documentato migliaia di morti nelle strade, da Ankara a Suruc, a Diyarbakir. In particolare nelle regioni curde, nel sud est della Turchia sono state usate violenze spropositate nei confronti dei civili, così nelle città di Bitils, Cizre, Mardin, Nusaubin, Lice, Hakkari, Dersim, e tante altre, attraversate da lunghi coprifuochi e bombardamenti indiscriminati che hanno decimato la popolazione e distrutto case, negozi, luoghi di culto e cimiteri, pur non riuscendo a fermare il dissenso e l’organizzazione.
Nei territori curdi l’esercito massacra le popolazioni e sui media locali nessuno può farne parola. Da’es ha attraversato e attraversa ancora indisturbato i confini turco-siriani sotto gli occhi placidi dell’esercito, quegli stessi confini che, ogni giorno, tentano di varcare centinaia di migranti in fuga dall’ISIS e che la Turchia e la cosiddetta “civile” Europa dovrebbero accogliere, non bloccare. Per mettere seriamente in discussione e aprire un dibattito su quanto avviene in Turchia e in Kurdistan in merito alla censura bisogna mettere in discussione i costrutti che difendono e finanziano lo stato turco decidendo da che parte stare.
Oggi più di ieri bisognerebbe equiparare tranquillamente il regime turco, a livello di brutalità e libertà di espressione, ad IS oltre che a denunciare l’omertà che regna intorno al sostegno economico e militare che la Turchia fornisce ai combattenti islamici. Porre un freno alla diffusione di informazioni sulla guerra sanguinosa che stanno portando avanti contro i curdi e contro le organizzazioni rivoluzionarie di sinistra, rappresenta un punto focale della strategia militare del regime di Erdogan dal momento che troppe informazioni sulla pulizia etnica in corso potrebbero scatenare ulteriori proteste in Europa, dove vivono oltre 1,5 milioni di curdi dalle prime diaspore fino agli ultimi profughi di questa lunga guerra.
La manipolazione mediatica si è costituita come ingranaggio imprescindibile delle politiche di repressione del dissenso interno allo Stato. Tutto ciò avviene in un contesto nel quale la Turchia, candidata a sedere tra i banchi del Parlamento Europeo a Bruxelles, sta costruendo la sua posizione e la sua identità nel mondo non come portatrice sana di principi democratici in una zona travagliata del globo, ma grazie al suo ruolo di zona cuscinetto tra la Fortezza Europa e una marea umana di rifugiati siriani. Intanto l’Unione Europea ha riempito le tasche di Erdogan con 6 miliardi di euro per costituire campi profughi che risultano essere veri e propri lager. Finché il dibattito politico internazionale, giornalistico e all’interno dell’opinione pubblica si baserà sul senso di paura e sulla conseguente necessità di sicurezza, dando priorità ad esigenze elettoralistiche, di controllo o repressive piuttosto che a quelle relative al diritto al dissenso politico e sociale in Turchia, così come in tutto il mondo, le limitazioni alla libertà di espressione potranno solo aumentare.
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